venerdì 29 ottobre 2010

La vecchina di Striscia: meno male che ci sei




In fondo è quello che avremmo voluto fare tutti. Che vorremmo fare tutti almeno un paio di volte alla settimana. Tutte le volte che troviamo la parlamentare di turno – destra o sinistra, chissene - che elogia il proprio governo, la cultura e robine di questo tipo.

Sarà perché ormai è anziana, perché non ha un granché da fare, ma sta tizia è senz’altro un mito. Non credo sia stata pagata da nessuno e credo che non ci siano particolari dietrologie al fatto: troppo carina come idea per appartenere ad una fazione politica italiana! Ma non ci sono dubbi: la vecchietta dalla “criniera bianca” è il nuovo superman. Non fosse altro per le risate che ci fa fare.

Bellissima la scena: la parlamentare del Pdl, lampadata, appena uscita dal parrucchiere e da un negozio di via Condotti.
E lei, vecchia, con un italiano da far girare nella tomba il buon Totò e da risvegliare Massimo Troisi in “Non ci resta che piangere”.

Vecchina, chiunque tu sia, non ti dimenticare di noi: continua a farci sorridere, perché altrimenti davvero qui non ci resta che piangere…

giovedì 28 ottobre 2010

Una citazione tanto per gradire: una chitarra e niente più


« ...pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra. »

Fabrizio De Andrè

Una chitarra suona da sola, ti fa compagnia, accompagna dolcemente e fortemente il suono delle parole e dei messaggi.
Notte con Fabrizio, mejo di così....speriamo di guadagnarmi il sole...

mercoledì 27 ottobre 2010

Luigi Tenco: biografia senza pretese e con tanti pensieri


Se riuscite arrivate fino in fondo. Altrmenti, ho sottolineato in maniera diversa ciò che credo non si debba perdere per conoscere davvero questo pezzo di musica.

Luigi Tenco nasce a Cassine, in provincia di Alessandria e muore a Sanremo durante il sedicesimo Festival della Canzone italiana (21 marzo 1938- 27 gennaio 1967). Già nei primi anni di vita si trasferisce in Liguria: prima a Nervi e poi a Genova. Quella stessa Genova che negli stessi anni ha dato fiato a tanti cantautori italiani, come Paoli, De Andrè, Lauzi: tutte voci che faranno parte, oltre che del panorama musicale italiano, anche della vita di Luigi Tenco che con loro studierà, lavorerà, litigherà. La sua primissima infanzia si svolge tra Cassine e Ricaldone- paese natìo della madre dove tutt’ora Tenco è sepolto- e all’età di dieci anni si trasferisce dapprima nella ligure Nervi e a seguire a Genova, dove la sua famiglia apre un negozio di vini: “Enos”. Luigi Tenco non conoscerà mai suo padre, Giuseppe Tenco, poiché costui muore in circostanze misteriose nei campi dove stava lavorando. Capofamiglia è considerato lo zio di Luigi, Giovanni Zoccola, fratello della mamma Teresa: sanguigno, con grande determinazione, è lui a provvedere alle necessità della famiglia. I Tenco si spostano in Liguria per diverse necessità, tra le quali il desiderio della madre Teresa di rimanere vicino ai congiunti bisognosi di cure. Nel negozio di vini- rimasta negli anni la vera alternativa di Luigi alla sua musica- lavorano la madre Teresa, lo zio Giovanni e Valentino, il fratello maggiore di Luigi, che verso la passione del fratello minore nutre un distacco emotivo, poiché considera la musica come fuorviante e una sorta di perdita di tempo: i due, pur amandosi molto, sono destinati a parlare tra loro con codici diversi.


Già da piccolo, Luigi è un bambino assolutamente fuori dal comune: impara a leggere e scrivere prestissimo, dimostrando alla maestra Sandra Novelli un’intelligenza fuori dal normale, una capacità di apprendimento sorprendente e una curiosità tanto viva quanto fredda, distaccata: ha capacità per ogni disciplina, ma la sua attitudine a nascondere gli entusiasmi lo fa apparire indifferente. L’affidamento di Luigi alla maestra privata trova giustificazione nelle aspirazioni della mamma Teresa Zoccola che, appurato che il futuro del primogenito Valentino si sarebbe svolto all’interno di “Enos”, vuole lavorare per dare a Luigi un futuro diverso, fatto di studi classici. Fu proprio l’incontro con la maestra Novelli, però, a portare Luigi verso le grandi ali della musica, per la quale il futuro cantautore era evidentemente portato senza forzatura alcuna. Bravo in matematica e in musica, in lui la maestra Novelli non vedeva né fuoco, né passione, bensì un atteggiamento compassato, fine e freddo: lo stesso freddo dal quale nacquero le contraddizioni che disegnarono, in un futuro che purtroppo rimase corto e spezzato, la figura tenchiana e la sua produzione artistica.


Tra i nomi che hanno dato a Tenco il suo nome di artista ci sono Ruggero Coppola e Pupi Gatto, amici più grandi di Luigi con i quali lo stesso Tenco formerà un gruppo di ragazzi “fuori dal comune” come spesso la gente li definisce per strada: ragazzi che amano il mito di Jeams Dean e il fascino del mare, dell’orizzonte.


Il rapporto con la sua bottiglieria rimane sempre saldo, anche perché è nel soppalco del negozio che Tenco impara le prime note su un clarino e a lui si accompagna Bruno Lauzi con il suo banjo. Il suo primo complesso nasce nel 1953: i “Jelly Roll Morton Boys Jazz Band”. Con lui suonavano Danilo Degipo alla batteria, Bruno Lauzi al banjo, Alfredo Gerard alla chitarra, (Tenco era al clarino) e Paolo Carrera “tuttofare”. Ispirano il gruppo le musiche di Mulligan, di Charlie Parker, di Jelly Roll Morton e di Paul Desmond. Già in quegli anni, Luigi dimostra tanto una spiccata sensibilità artistica, quanto un forte carattere, ragionato, consapevole, di chi lotta giornalmente per le cose in cui crede: negli anni del Ginnasio si prende a pugni con Lauzi poiché non concorda con il messaggio artistico che il cantautore con i baffi intende riguardo a Picasso. Così come qualche anno più tardi, smette di rivolger parola a Paoli poiché non approva la sua relazione con la giovanissima attrice Stefania Sandrelli.


Il gruppo- che spesso e periodicamente si riunisce a casa di Degipo- vede passare diversi artisti dell’epoca, molti dei quali rimangono sconosciuti al grande pubblico: i fratelli Reverberi, Nicola e Roy Grassi, Gino e Guido Paoli, Matilde Repetto, Arnaldo Bagnasco, Sergio Sandrini e Fabrizio De Andrè. L’avventura di Tenco continua con diverse realtà musicali, tra le quali spicca una jazz band della quale fa parte lo stesso De Andrè, con Attilio Oliva al sax, Alberto Cameli come voce, Mario De Sanctis al piano e Corrado Galletto alla batteria. Poco tempo prima di uscire con il suo primo 45 giri, compone l’ennesimo complesso della sua realtà musicale: insieme a Nicola Grassi e Gino Paoli forma “I Diavoli del rock”, al quale fa seguito il “Trio Garibaldi”: Tenco, Coppola e Marcello Minerbi. Ed è con loro che Tenco trova l’ispirazione per scrivere la sua prima canzone: non “Quando”- come i più pensano e credono- bensì la sigla delle loro performance, la prima delle quali è in occasione di una sostituzione dell’orchestra “Dino Siani” a San Pellegrino: si tratta proprio di un gingle sull’acqua effervescente che mostra fin da subito le capacità “parolistiche” di Tenco.


Sul finire degli anni ’50, dopo aver concluso brillantemente gli studi ed essersi iscritto all’università, Luigi Tenco viene finalmente scoperto dall’industria discografica e nei pochi anni addietro, con Gaber e Reverberi, fa le prime apparizioni in pubblico, dormendo negli alberghi piemontesi e liguri in attesa delle prove musicali. Alla Ricordi- caso vuole proprio nel periodo in cui Tenco è “provinato”- inizia una sorta di ragionamento per portare al rinnovamento della canzone italiana: tale rinnovamento arriva forte e chiaro solo diversi anni dopo, quando Tenco non ci sarà già più. Gli esperti del settore- Giulio Rapetti in arte Mogol in primis- si chiedono se finalmente non sia arrivato il momento di vedere la canzone non solo più come uno svago, una “leggerezza”, bensì un tramite per lanciare messaggi.

Nei primissimi anni ’60, Tenco sceglie nomi d’arte per esprimere la sua arte musicale: Gigi Mai, Dick Ventuno e Gordon Cliff. La motivazione di questa scelta di nascondersi dietro a pseudonimi sta nella convinzione che per una futura carriera lavorativa l’hobby della musica sia in qualche modo disdicevole e assolutamente non edificante. Lui stesso indica come la sua professione non il cantante o il musicista, bensì lo studente. Quasi abbia intenzione, in un futuro mai esistito, di abbandonare e dedicarsi alla serietà della vita.


La sua prima tournè non è in Italia, né tanto meno a Genova. Con Adriano Celentano e Giorgio Gaber va in Germania, dove Tenco viene osannato dal pubblico in delirio per i pezzi di Little Richard riprodotti con rara bellezza. Lui ha una grande paura del pubblico ed è per questo che prega Gaber di precederlo. I tedeschi, dopo la magnifica esibizione, lo attorniano per un autografo, salvo poi rimanere delusi quando scoprono che quel giovane non è Adriano Celentano. Al limite del buffo, il fatto che accade poco dopo, quando l’impresario che li aveva ingaggiati scappa con la cassa. Fortunatamente, i tre italiani nordici hanno in mano il biglietto di ritorno.


Gli anni sono propizi, ma spesso la produzione di Luigi Tenco incontra la censura: succede con Cara Maestra (1961), Io sì e Una brava ragazza (1963), troppo esplicite per il tempo. Ancora a confermare che Tenco arriva troppo presto: troppo presto per essere cantautore, quando sui palchi impazzano ancora i complessi “vuoti” della musica leggera e quando “certi argomenti” non si possono toccare.


Luigi Tenco, però, non è solo cantautore e musicista. Lavora anche nel cinema di nicchia, partecipando alla pellicola “La cuccagna” di Luciano Salce. A presentare Luigi a colui che sarà il papà di Fantozzi è Nanni Ricordi che riconosce in Tenco il personaggio che Salce sta cercando: volto disfatto dal sonno, barba lunga. Due caratteristiche che ben incarnavano il carattere ribelle e contestatario che Tenco recitava nella vita. Tenco non è solo un cantautore, un musicista, un regista.



E’ capace di appassionarsi ad ogni cosa, tanto che dopo l’avventura con “La cuccagna” acquista una macchina da presa. La sua creatività a volte “ingegnieristica” (creò una piccola radio da sub dall’originale principio) è figlia delle mille contraddizioni che hanno costellato la sua vita, forse creando esse stesse il mito che diverrà tale dopo la tragica morte: ama i gatti ma alleva solo cani, dilaziona il più possibile la chiamata alle armi per un evidente antimilitarismo, ma possiede due fucili e tre pistole.


I due anni a seguire sono fondamentali: è al secondo film della sua carriera (Questo pazzo, pazzo mondo della canzone di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi), mentre nasce in lui la necessità di un pubblico sempre più ampio, di un palcoscenico sempre più popolare.

Chiacchierando con Walter Guertler, con il quale ha avuto in passato dissidi poiché il discografico non amava il genere e le canzoni di Tenco, prende piede l’idea di andare a Sanremo. Il titolare della Jolly e della Joker sa che Tenco non ha la possibilità caratteriale di resistere ad un impegno tanto stressante: ma Luigi Tenco trova la RCA, una casa discografica che gli offre maggiore attenzione e la possibilità di partecipare al Festival.

Combattuto rispetto alla sua possibile esibizione, viene persuaso da Dalida, artista italo-francese che, una volta ascoltato il pezzo che Luigi Tenco vorrebbe portare al Festival (Ciao amore ciao, una canzone che tutto ha a che fare tranne che con una sdolcinata melodia d’amore), pare subordinare la sua partecipazione a quella di Luigi. Tenco quel Festival voleva vincerlo.

Ancora una volta, il piemontese adottato dalla Liguria vive l’ennesima contraddizione della sua vita: stigmatizza i comportamenti “partecipazionisti”, non condivide i concorsi canori- da buon cantautore ribelle e schietto, non pieghevole alla forma e ai formalismi- ma vuole a tutti i costi partecipare. Anzi: in un’intervista rilasciata a Daniele Piombi- vincitore del premio “Libertà di stampa”- dice di voler vincere. Ancora una volta esprime una grande dicotomia: la fobia del pubblico, con la quale farà i conti fino al termine dei suoi giorni, si mescola alla voglia di emergere e al desiderio di avere il suo pubblico sempre più grande, sempre più immenso.

Per diffondere i suoi messaggi, per usare la canzone così come negli anni a venire verrà usata dai vari Demetrio Stratos, lo stesso De Andrè e diversi altri: alcuni di questi più fortunati a vivere un periodo diverso rispetto a quello nel quale Tenco era immerso per questioni anagrafiche; alcuni, invece, semplicemente più pazienti nell’attendere il successo in anni più fertili.


La sua canzone Ciao amore, ciao parla di emigrazione: della difficoltà economica, sentimentale, affettiva di un emigrante (“E non avere un soldo nemmeno per tornare”, “In un mondo di luci sentirsi nessuno”, “E non capirci niente e aver voglia di tornare da te”). Per cantarla e vincere la sua paura, Tenco deve trangugiare una scatoletta di Pronox e una bottiglia di grappa alle pere, tanto che la sua performance risulta quanto meno sconnessa.

A Sanremo, non è un mistero, Tenco si uccide. La sua canzone non passa al vaglio degli addetti ai lavori. Ciao amore, ciao, cantata in coppia- così come si usava all’epoca- con Dalida non piacque e racimola solo 38 voti su 900. La commissione di ripescaggio sceglie La rivoluzione di Gianni Pettenati. Agitato non partecipa al jet set del dietro le quinte di Sanremo: quel panorama che tuttora fa parte dei vincitori, così come dei vinti. Tenco crede troppo a quello che fa per pensare di “mangiarci su”. Contrariato da tutti e tutto, si chiude nella sua camera del seminterrato del Savoy, l’area dell’hotel riservata ai cantanti meno abbienti. Da quella stanza Tenco non uscirà morto. Un colpo di pistola lo porta via per sempre, avvolto nel suo mistero, nella sua ombra, nella sua eccessiva intelligenza e nelle sue capacità comunicative. Nel suo fascino di uomo giovane e tenebroso. Se ne va lasciando un biglietto: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sia stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda in finale Io tu e le rose e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao, Luigi”.


Un colpo di pistola quel biglietto: più forte dello shot che nessuno sente quella notte. Tenco giace a terra in una pozza di sangue e il modus operandi dei media dell’epoca non antepongono la dignità umana allo scandalo sanremese. Il fratello Valentino, così come il carro funebre, viene mal indirizzato e si reca prima all’obitorio, per poi sapere che il corpo di Luigi è rimasto in albergo. Il commissario di Sanremo promette addirittura la foto del morto ai giornali. Una morte atroce, forte, violenta che, tutto sommato, non blocca il festival e, forse, scuote le coscienze: ma con ritardo.


Vincono Claudio Villa e Iva Zanicchi con Non pensare a me, espressione di quella musica che Tenco- suo malgrado e, forse in parte a torto- voleva combattere.


Intanto, per qualche giorno, le accuse si scambiano, le ipotesi si spalleggiano. Suicidio? Omicidio? Roulette russa? Nessuno lo saprà mai. Senza volerlo, probabilmente, Luigi Tenco ha costruito una storia che ha raggiunto il suo obiettivo: comunicare. Scuotere. Creare. Da Tenco in poi, si può parlare davvero di “cantautorato”. Il mondo della musica “leggera” cambia dopo quel freddo gennaio 1967.


Sanremo non ha avuto la forza di fermarsi quell’anno. La musica lo ha fatto ed è ripartita.

Il trauma di Tenco- assolutamente personale- si trasforma in trauma sociale. Ad un fatto individuale, fa seguito la rivoluzione musicale. A lui, tanti artisti italiani dedicano qualcosa. Spesso dimenticato dai gradi media, Tenco rimane la forza di un genere musicale, al quale forse lui ha dato fiato e voce senza saperlo: non come vittima sacrificale, come qualcuno ama definirlo implicitamente. Ma come ideatore. Fabrizio De Andrè gli dedica la meravigliosa “Preghiera in gennaio”: personale, forte, rivolta al cielo e alla sua misericordia verso un suicida. Verso uno che in chiesa non è potuto entrare neanche il giorno del suo funerale. Francesco De Gregori è il più sanguigno dei dedicatori che bacchetta gli avvoltoi e pone l’accento sulla dimensione personale di Luigi: “Qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sottobanco che quello era il motivo. Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo" e ancora "Si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca, tutti dicevano: "Io sono stato suo padre!", purché lo spettacolo non finisca”.

Nessuno saprà mai la verità. Colei che forse era con lui, Dalida, muore suicida nel 1987. Forse era con lui.


Ci sono solo “forse” sulla fine di questa storia. Ed è forse questo il velo di tristezza più spesso e ruvido che Luigi lascia nel cuore di chi lo ha conosciuto da vivo o da morto. Coerentemente con la sua visione della vita, però, lascia la possibilità a tutti di credere in ciò che vuole, nel finale che più lo convince: un omicidio per i rabbiosi e per i “giustizialisti”, un suicidio voluto e ragionato per i romantici della ragione e della rivoluzione, un suicidio “da ubriaco” per i depressi, un gioco finito male per gli azzardatori. Ognuno si può sceglier la sua fine, il suo epilogo, la sua morale, il suo messaggio: proprio come voleva lui. Proprio come Tenco intendeva la sua musica: sua perché l’aveva scritta lui, ma anche del suo pubblico (che lui ha “amato immensamente”). Ha dato la possibilità di vivere la sua storia a tutti, così come ognuno desidera, favorendo quella pluralità e quel rispetto che Tenco non ha mai tradito: così come diceva nella sua E se ci diranno (“E se ci diranno che nel mondo la gente o la pensa in un modo o non vale niente..Noi diremo No No No”). Un soggetto sanguigno, timido ma mai codardo. Forse debole. Ma sicuramente un personaggio che anche da morto continua a comunicare non solo con le sue canzoni. Ma con le sue foto, con i suoi occhi immortalati e con la certezza che il vero sipario, fondamentalmente, tarda ancora a calare. Fine. Pausa: silenzio…

martedì 26 ottobre 2010

Diego Milito no? Io non ci sto...



Diego Milito non è neanche in lizza per il Pallone d'oro.
Che sarebbe stata dura lo si sapeva. Non tanto perchè "Il principe" non meriti il titolo. Quanto perchè è noto a tutti che nell'anno dei Mondiali l'iridato trofeo viene dato ad un giocatore che fa parte della Nazionale vincitrice della competizione.
E va bene.
Senza questa regoletta non scritta, Fabio Cannavaro si sarebbe sognato di notte il Pallone d'oro quattro anni fa.
Così come nel 2010 nessuno storce il naso alla notizia che non c'è neanche un italiano in competizione per arrivare ad alzare il Pallone d'oro (e ci mancherebbe pure...).

Però che Milito - il quale ha fatto un campionato a dir poco stratosferico portando a casa tre titoli, Champions League compresa con tanto di due gol in finale contro il Bayern Monaco- non sia neanche tra i 23 che si pensa possano meritare il trofeo...francamente non ci credo.

Questi i candidati:  Xabi Alonso (Spagna), Daniel Alves (Brasile), Iker Casillas (Spagna), Cristiano Ronaldo (Portogallo), Didier Drogba (Costa d'Avorio), Samuel Eto'o (Camerun), Cesc Fabregas (Spagna), Diego Forlan (Uruguay), Asamoah Gyan (Ghana), Andres Iniesta (Spagna), Julio Cesar (Brasile), Miroslav Klose (Germania), Philipp Lahm (Germania), Maicon (Brasile), Lionel Messi (Argentina), Thomas Müller (Germania), Mesut Özil (Germania), Carles Puyol (Spagna), Arjen Robben (Olanda), Bastian Schweinsteiger (Germania), Wesley Sneijder (Olanda), David Villa (Spagna) e Xavi (Spagna).

Nulla da dire, per carità. Ma quale è il criterio? Il più forte? Chi vince di più? Chi vince il Mondiale? Chi segna di più? Chi para di più?

Almeno per quest'anno - visto che non han vinto nulla e che son sempre quelli - ci potevano risparmiare Cristiano Ronaldo, Didier Drogba e Lionel Messi. Nulla da dire su di loro, la loro forza eccetera eccetera.
Ma allora perchè Milito no?

Per la foto: flickr.com

In Pillole: l'italiano medio e la legge


Quando un italiano viene beccato con le mani nel sacco (qualsiasi sacco sia: di farina, di oro, di diamanti, di m....) la risposta verbale che viene pensata (e spesso detta) è questa:

"Ma con quello che succede nel Mondo, vieni a fare la multa a me per un divieto di sosta?"

"Ma con quello che è successo a Genova con i serbi, vieni a ritirare a me l'accendino?"

"Ma con tutti gli omicidi che ci sono, vieni a rompermi perchè ho rubato in un supermercato?"

La massima del giorno: "C'è sempre qualcosa di peggio di quel che ho fatto io".

Foto: flickr.com

lunedì 25 ottobre 2010

Pistocchi è solo un Pistocchi



E ma son soddisfazioni. Son davvero delle grandi soddisfazioni. Sembrerà strano sentirmi difendere un ragazzo che dà due calci ad un pallone con la maglia della Juventus. Ma che questa "scemata" (mi permetterà il termine) di Pistocchi passi inosservata proprio non mi va. Mi piacerebbe capire che cosa mai possa passare per la testa del "Pisto" nazionale. Avolte credo sia meglio sembrare meno simpatico ma evitare di offendere e di farla fuori dal vaso. E lui - per far fare quattro risate agli stolti - ha offeso non solo Krasic, ma tutta la gente serba che con Ivan il terribile non c'entra niente. 

Il razzismo non c'è solamente quando si fanno i "buuuuuu" a Eto', caro il mio Pistocchi. 
Ma è razzismo anche quello che si attacca alle storie nazionali per giudicare quelle personali.  Lo è ancora di più se si utilizza un momento drammatico (come quello di Genova) per giudicare una simulazione all'interno di un gioco. Grave quanto volete, ma non mi sembrano la stessa cosa.


Così è nato il razzismo: la gente dall'Africa veniva deportata in America e resa schiava? Bene, allora le persone di pelle scura vengono trattate come esseri inferiori. Quindi, come schiavi, come chi deve offendersi in silenzio e sentirsi dire i peggio insulti.

Ivan il terribile mette a ferro e fuoco la città di Genova? E Krasic - poichè compie il "reato mortale" di simulare in un'area di rigore - è...."solo un serbo". Non fa una piega.

Krasic prenderà le sue due giornate di squalifica come dice il regolamento (e se ne vada anche al diavolo, visto che tengo all'Inter....).

Ma Pistocchi farebbe bene e tenere a freno la sua simpatia.

Anche perchè, fosse il primo campione di tuffi in un'area di rigore, posso anche capirlo. 
Ma fare tutto questo casino per un penalty simulato...forse è meglio che torniamo a misura di un campo in terra battuta, grazie.



domenica 24 ottobre 2010

Una citazione tanto per gradire: dopo il Liga...tutti a letto!



"Strade troppo strette e diritte per chi vuol cambiar rotta oppure sdraiarsi un po'. Che andare va bene però a volte serve un motivo": non serve altro. Buona notte!

Per la foto: http://www.flickr.com/photos/u2005/2435496395/

venerdì 22 ottobre 2010

“Anche per te” di Lucio Battisti: la canzone degli ultimi



Si tratta di un testo assolutamente unico. Il primo dedicato “agli ultimi”.
Per l’esattezza “alle ultime”. Un testo che unisce poesia- il ritornello evoca immagini di natura e libertà leggere e delicate- a tre storie “verosimilmente vere”, di tre donne che, per motivi diversi, meritano quanto meno un pensiero.

Il primo verso parla del primo personaggio femminile: una suora.

“Per te che è ancora notte e già prepari il tuo caffé
che ti vesti senza più guardar lo specchio dietro te
che poi entri in chiesa e preghi piano
e intanto pensi al mondo ormai per te così lontano”.

La descrizione della religiosa è di rispetto e tenerezza e l’autore usa delle immagini fondamentali per far comprendere di chi si sta parlando: “ti vesti senza più guardar lo specchio dietro te”, a voler sottolineare come una suora non abbia bisogno di vedere se sta bene o se sta male vestita in un modo o nell’altro. Se è bella. E soprattutto, ha una veste sempre uguale. Tutte le mattine. O meglio: tutte le notti, quando la piccola donna si sveglia, beve un caffè ed entra in punta di piedi in chiesa. Quasi per non disturbare. Qui inizia a pregare sempre con grande discrezione, pensando ad un mondo lontano e irraggiungibile che, non si sa, magari rimpiange e vorrebbe riacciuffare.

Il secondo personaggio è una prostituta: E qui la sofferenza non è più l’estraniazione dal mondo- o almeno non solo- ma il disagio al quale va il pensiero dell’autore attraversa il materialismo, il freddo e i soldi. Tutte realtà con le quali una prostituta deve fare i conti tutte le mattine:

“Per te che di mattina torni a casa tua perché
per strada più nessuno ha freddo e cerca più di te
per te che metti i soldi accanto a lui che dorme
e aggiungi ancora un po' d'amore a chi non sa che farne”.

E’ alto il senso di protezione verso questo personaggio che, affrontando i pericoli e dopo una notte passata in strada, torna a casa. Quando nessuno più ha freddo, lei si ritrova sola e con i brividi, dopo aver lasciato il denaro guadagnato a chi di dovere e aver dato l’amore- che per riprendere un’altra canzone di Lucio Battisti “amor non è poi” (Il nostro caro angelo nda)- a chi non ha idea di che cosa sia. Non ha altro da fare se non tornare a casa ed aspettare che cali ancora il sipario della notte.

Il terzo personaggio è una giovane donna, una ragazza madre che tutti i giorni deve affrontare i rimpianti e i rimorsi di un errore.

“Per te che di mattina svegli il tuo bambino e poi
lo vesti e lo accompagni a scuola e al tuo lavoro vai
per te che un errore ti è costato tanto
che tremi nel guardare un uomo e vivi di rimpianto”.

Anche in questo caso, il personaggio ha bisogno di protezione. A maggior ragione per la giovane età e per la fatalità dell’errore. Il testo iIndica una ruotine quotidiana sempre uguale, mai colta da stimoli. Nonostante la donna sia davanti all’infanzia, alla bellezza della vita giovane, questa deve far fronte alla responsabilità di una piccola creatura e deve lavorare per mantenere la sua piccola famiglia “a due”. Con la conseguenza che, a causa dell’errore, ha paura e trema al pensiero di guardare un uomo e vive sfogliando le pagine del rimpianto e di “quel che sarebbe potuto essere”.

“Anche per te vorrei morire ed io morir non so
anche per te darei qualcosa che non ho
e così, e così, e così
io resto qui
a darle i miei pensieri,
a darle quel che ieri
avrei affidato al vento cercando di raggiungere chi...
al vento avrebbe detto sì”.


Il ritornello è pieno di suggestione, di carica emotiva. “Anche per te”- riferito chiaramente ai tre personaggi della canzone- “vorrei morire ed io morir non so”. L’autore sottolinea come egli sia vicino a questi soggetti, tanto da voler dare- metaforicamente- la vita per loro, per le loro sofferenze e le loro esistenze difficoltose: chi per un motivo, chi per l’altro. Per loro darebbe qualcosa che non ha. A seguire, il ritornello cambia tono e, utilizzando immagini leggiadre, l’autore annuncia a chi lo ascolta che vuole continuare a dare i suoi pensieri- forse l’unica cosa che egli è in grado davvero di dare- alla suora, alla prostituta e alla ragazza madre. Anche la musica, a questo punto del ritornello si alza, si eleva al cielo in segno di speranza. Ma in generale i pensieri sono rivolti a tutti- in questo caso tutte- coloro che soffrono. Nelle storie dei tre personaggi, c’è un filo conduttore: la quotidianità e le ore sempre uguali. Di chi si sveglia di notte per andare a pregare. Di chi tutte le mattine torna a casa dopo aver scontato il freddo nel cuore. E di chi ogni giorno deve sbarcare il lunario e fare i conti con la propria storia. E il pensiero, anche se solo di una semplice canzone, va a loro. Per una volta non ad una storia d’amore, di sesso, di razza o di politica. Va alla difficoltà della normalità: troppo spesso lasciata ai margini dell’arte e della musica. Mogol riesce a far diventare arte la quotidianità: la sfida maggiore di un artista e di un poeta.

Come spesso accade con la premiata ditta Mogol-Battisti, le canzoni e i messaggi rivivono grazie ai personaggi, alle persone e alle loro storie che, già di per loro, riescono a far poesia. A queste, Mogol aggiunge le immagini e i suoni della natura e delle voci.

Di questa canzone, due sono state le cover: di Enrico Ruggeri e di Renato Zero e nelle Hit Parade il brano è stato anche al 7° posto nella classifica dei singoli del 1972, mentre rimase, anche se in basse posizioni, nella graduatoria del 1973.

Per la foto: flickr

“I pilastri della terra”: finire il libro è un peccato…



Come s fa a fare una recensione de “I pilastri della terra”? E’ quasi impossibile. Bisogna abbandonare l’idea di poter raccontare la trama, prima di tutto. Per due motivi: perché non c’è una trama come la si intende classicamente, se non un filo conduttore d’amore, odio e personaggi.
E poi, non si può raccontare la trama nei suoi dettagli, perché si rischierebbe ad ogni passo di svelare qualcosa, di dire il troppo e di non lasciare che il lettore si gusti il viaggio all’interno del Medioevo. Per questo, è da escludere l’ipotesi di recensire il libro partendo dalla trama.

Così come non mi va di partire dai personaggi. Perché ognuno è concatenato con l’altro, ognuno è dentro l’altro. E ognuno parla dell’altro. Ogni vicissitudine viene vista dagli occhi di più personaggi: e questa è una tecnica mirabile che supera chiunque.

Per recensire questo libro basterà, quindi, dire e raccontare qualcuna delle sensazioni che emana. 

Di tutti i libri annoto le frasi che mi piacciono di più, quelle più sensazionali, stupide, simpatiche, drammatiche. Di questo libro non ce l'ho fatta. Perchè non sono parole: è un film. Una pellicola veloce e nello stesso tempo semplice che non può essere trascritta perchè le parole non incastonate nella storia raccontata perderebbero di sapore.

Anzitutto, chiunque voglia accingersi a leggere “I pilastri della terra” deve sapere una cosa: deve aver del tempo a disposizione. E voi mi direte: ma io leggo qualche minuto prima di andare a letto. Per tutti i libri funziona così. Per questo no. Questo libro ti porta a chiudere gli occhi e a continuare a leggere, ad immaginarti le scene davanti a te e a portarti il libro al lavoro, perché…non si sa mai: magari mi scappa e allora, leggo mentre….

Scherzi a parte, non ho mai letto niente di simile: affrontare “I pilastri” (siamo in confidenza ormai) vuol dire trovare nuovi amici, rendere la lettura qualcosa di frenetico, a volte, e di rituale, altre volte. Ricordo una sera che non riuscivo a smettere di leggere e sono andata a letto a tarda notte con un mal di schiena pazzesco. Nello stesso modo, ricordo quando mi mancavano cento pagine ed ero al mare, a Marina di Massa. Nulla da togliere alla bella località toscana, ma mi sono fermata. Con grande difficoltà, per la verità. Ma ho voluto staccare un attimo per lasciare che io potessi finire il libro nel posto a me più congeniale: camera mia. E allora, ho aspettato di tornare a casa e l’ho terminato dove avevo conosciuto i personaggi: Jack, Tom, Ellen, Aliena e tutti gli altri.

Dirò solo che alcune descrizioni sono talmente minuziose che quasi quasi anche io potrei fare l’architetto.

Dico solo che Ken Follet non è uno scrittore solamente: è un pittore che attraverso le palpebre chiuse del lettore riesce a trasportare i Mondi da un polo all’altro e le epoche da un’era all’altra.

Si parla di una cattedrale, di un bambino disadattato, di amore, di violenza, di cattiveria gratuita, di colpe mai confessate, di religione vera e presunta.
Si parla, si racconta.

Attenzione: quando lo finirete sarà un dispiacere per voi. Non potrete più ascoltare le storie dei vostri amici…

Io ora inizio “Mondo senza fine”: ci vediamo fra qualche mese…

In Pillole: gli stereotipi


Gli stereotipi non sono fatti per essere veri per forza. Non son fatti neanche per essere smentiti a tutti i costi. Forse sono fatti per guardarci allo specchio e per capire quanto incidano sul nostro metro di giudizio verso le persone che incontriamo.

Per la foto:flickr.com

giovedì 21 ottobre 2010

Ma, una domanda: ma chi è chi mi segue dall'Estero????


Prima di andare a letto, lancio questa domanda: ho visto dalle statistiche che ci sono persone che leggono i miei blog dagli Stati Uniti, Germania, Singapore, Gran Bretagna e - new entry - Canada e Francia....raccontatemi di voi! Son curiosa assai...

Per la foto: http://www.globopix.net/clima/

Notte

Ele

Ho sognato di incontrare...Mariangela Gatti


Questa sezione è dedicata agli incontri improbabili, che forse non si faranno mai. Immaginati e fantasiosi, mai accaduti, ma pur sempre possibili. Questa volta tocca a Mariangela Gatti. Questo nome non dirà molto. Forse al cittadino medio di Albiate, paese in provincia di Monza e Brianza, ricorderà il cognome più diffuso, abbinato agli alimentari del centro. 
E invece si tratta di un'anonima - nel senso che non credo si sia mai vista in tv o cose del genere - signora che, però, vanta primati in tutto il Mondo nell'ambito della corsa, tanto da classificarsi 1^ tra gli over 70 all'ultima Maratona di New York. Di recente ha sbancato anche Budapest con un tempo di 4 ore, 47 minuti, e 48 secondi. Il personaggio mi ha affascinato all'istante, tanto da immaginare un incontro casuale con lei. Non so che faccia o abbia fatto nella vita. Se parteciperà o meno alla Maratona di New York del prossimo 7 novembre 2010. Questo è un racconto inventato e verosimile. Nulla di più...

 
NEW YORK- Central Park, ore 7 della mattina: c’è un’arzilla signora che si riposa su una panchina ammirando, più che la natura, gli altri ragazzi che corrono. Avrà su per giù 55 anni, credo io. Io sono stanca: eppure non ho corso neanche mezz’oretta. Mi siedo accanto a lei. Mi sorride e apre un libro: è scritto in italiano. Lei comprende che la sto fissando e mi chiede: “Italiana anche tu?”. Sì, rispondo io. Lei chiude il libro e vedo che sulla copertina c’è scritto “Pavia, città regia. Storia e memoria di una capitale medievale”. Iniziamo a chiacchierare e io ho ancora il fiatone per la corsetta nel parco, tanto che lei mi chiede un po’ per prendermi in giro: “Ma quanti anni hai?”. Io rispondo, barando: le dico di avere 33 anni e di avere l’extrasistole, causa del mio fiatone. Le ricambio la domanda. Le risponde sincera: “71”. Dopo un breve shock, continuiamo a parlare e, chiacchierando, capisco che lei è a New York provvisoriamente, finchè, senza ancora sapere il suo nome, mi invita a correre ancora un po’. Accetto non senza timore: il suo passo è tonico, non velocissimo, ma in forma. Lei riesce anche a parlare mentre corre: io ascolto. Mi dice che quando tornerà a casa, a metà novembre, dovrà fare un sacco di cose: dalle faccende di casa alla sistemazione di decine di orli ai pantaloni e polsini alle camicie. Nella vita fa la sarta. Ci fermiamo e mi saluta con un sorriso, dicendomi di venire a vedere la Maratona di New York. Io dico che, se avrò tempo, ci verrò. Le urlo, mentre lei di spalle lascia il sentiero: “Ma se dovessi aver bisogno di una sarta?”. “Cercami sulla guida- dice lei- ho un negozio. Mi chiamo Mariangela Gatti”. Incuriosita, appena arrivo a casa vado su internet e scrivo il suo nome: non esce un negozio di sartoria, ma la prima pagina del sito della Maratona di New York che cataloga tale Mariangela Gatti come la prima classificata tra le donne 70enni alla scorsa edizione. Tempo per percorrere 42 chilometri e rotti: 4 ore, 30 minuti, 29 secondi, per una media di 10 minuti e 20 secondi per miglio. Piazzamento generale: 26.039 su 35mila. Piazzamento tra le donne: 6.913 e piazzamento per età: 1^.
In sostanza, avevo conosciuto un mito senza saperlo: forse perché di miti ne è pieno il mondo e in pochi vanno oltre le rughe.

Per la foto: flickr.com

Intervista ad Alessandro Fei: verso l'addio alla maglia azzurra (con riserva)

Italy's players celebrate during their FIVB Men's Volleyball World Championship third round match against the U.S., in Rome October 5, 2010. REUTERS/Tony Gentile (ITALY - Tags: SPORT VOLLEYBALL)

Alessandro Fei risponde alle nostre domande. Timido, riservato, apparentemente un po’ frastornato, il “Fox” nazionale è da sempre quella che si può definire la pedina più forte della Rappresentativa Azzurra da qualche anno a questa parte. Tanto, spesso e volentieri, da essere identificato – anche se lui ne farebbe volentieri a meno – con la Nazionale stessa.
Opposto della Sisley Treviso – dove con tutta probabilità finirà la sua carriera – Alessandro Fei è nato nel 1978 e fino alle Olimpiadi del 2004 ha giocato da centrale, prima di diventare uno schiacciatore opposto con un braccio veloce – da “middle blocker” appunto – e dalle ottime qualità a muro.

Se volete leggere la MIA intervista, cliccate qui: dotvolley

mercoledì 20 ottobre 2010

Lo sport e la vita: la parola alle storie di Nando Sanvito




Lo sport è la metafora della vita. Mai un evento sportivo può discostarsi da quello che è il suo contesto socio-culturale e ogni storia che viene raccontata da Nando Sanvito, giornalista delle reti Mediaset, è lì a dimostrare che una partita di calcio non è mai solo una palla che rotola per novanta minuti. Che una discesa con lo slittino non si riduce in quei quaranta secondi di adrenalina. Che una partita di basket è molto di più dell’obiettivo di fare canestro. Qualche tempo fa, l’oratorio di una piccola frazione brianzola (Paina di Giussano) si è trasformato nel teatro di un racconto condotto dal celebre giornalista sportivo che ormai da anni cerca di dare la possibilità a chi di sport vive per cultura e volontà, di provare a guardare dal buco della serratura, per cogliere il retro, il “dietro le quinte” che, spesso, è più interessante e carico di significati rispetto allo spettacolo stesso. Perché lo sport unisce e compatta, tanto che- non è un elemento da sottovalutare- ci sono più Nazioni che fanno parte del CIO, rispetto a quelle che rientrano nell’ONU.

Durante la serata, sono stati proposti video e contributi di Enzo Ferrari perché, forse, i più non sanno che Ferrari non era ricco, non era un ingegnere, anzi una sua frase celebre è “Francamente…non ho una lira”. Ma dalla sua parte aveva i sogni e la voglia di dar vita a grandi progetti: la stessa voglia che lo portò a fondare la scuderia dell’auto più bella al mondo. Quando Ferrari cercava di descrivere come dovesse essere l’auto che aveva in mente diceva semplicemente: “Deve avere un motore potentissimo con quattro ruote sotto” e parlando con gli uomini dell’Alfa Romeo, realtà automobilistica dalla quale nascerà proprio la Ferrari del Cavallino, disse loro: “Non siete mai riusciti a portare qui Vittorio Jano il miglior ingegnere della Fiat perché nella vostra offerta non avete mai incluso il sogno”.

Altre storie sono state raccontate da Sanvito, ma quella che ha destato il maggiore stupore della platea è stata quella relativa ad una partita di calcio. Non tanto per il risultato- visto che riguardava la Champions League 2008/2009, già morta e sepolta sotto le capacità balistiche del Barcellona- e neanche per le prodezze e i “goal da ricordare”. Quanto per la scoperta che dietro un Anorthosis- Inter qualsiasi ci fosse una storia di guerra, cruenti esodi e malinconia. I nerazzurri pareggiarono sull’Isola di Cipro contro la squadra di Famagosta, obbligata a giocare le sue partite casalinghe nello stadio di Larnaca, poiché la loro Patria è diventata nel 1974 una città fantasma, a seguito dell’invasione turca. Ebbene, dietro quel 3-3, forse sfortunato per l’Inter, c’era una squadra- quella cipriota- che per la prima volta si affacciava sul panorama europeo e che andava a giocare contro una titolata italiana senza i suoi uomini migliori. Nonostante ciò, pareggiò contro tutti i pronostici. “E forse- ha commentato Sanvito durante la serata- quel pareggio non fu solo un regalo di Nicolas Burdisso, con due assist agli avversari, bensì un regalo del destino”. I tifosi ciprioti, quando vennero a Milano per la gara di ritorno, non si recarono al Duomo, a Santa Maria delle Grazie o nei lussuosi negozi del centro. Fecero una sorta di pellegrinaggio alla fermata della metro “Famagosta”, sulla linea verde: onorati del fatto che una città importante come Milano avesse dedicato una stazione della metropolitana alla loro città fantasma. Fecero le foto di rito e colsero quest’occasione come un ritorno- per la verità malinconico e triste poiché la fermata della metro non è purtroppo la loro città- al passato e alle origini.

Le storie di Nando Sanvito sono uno sguardo diverso alla normalità, a quella che sembra solo una proiezione di sport e, invece, si rivela una lettura delle pagine di storia, dove si scoprono episodi e colori che altrimenti non sarebbero mai venuti allo scoperto dal mondo sommerso dei tempi, dei gol e delle maglie.

L’attività di Nando Sanvito cerca di sopperire all’impossibilità di leggere tutti i libri di storia, alla difficoltà di conoscere le vicende personali e dà risalto alle note a piè pagina grazie al viatico dello sport: una visione diversa e una lettura fondamentale per gustarsi la prossima partita senza soffermarsi troppo sul risultato, ma puntando dritto alla vita…

Per la foto:fotopedia

Stasera andiamo al cinema: i film in uscita il 22 ottobre /Parte 3


Ecco gli ultimi due film in uscita venerdì 22 ottobre.


Séraphine

Film diretto da Martin Provost, porta come data di nascita l’anno 2008 ed è basato sulla vita della pittrice francese Seraphie de Senlis. Ambientato nel 1913, è una pellicola di arte ed emozione che non può lasciare indifferenti gli amanti del genere cinematografico. Vincitore di diversi premi. Da vedere, soprattutto per ricordare una pittrice forse dimenticata.

Figli delle stelle

Film italiano di Lucio Pellegrini, “Figli delle stelle” presenta un cast amalgamato e interessante con Claudia Pandolfi, Pierfrancesco Favino, Fabio Volo e altri interpreti italiani di rilievo. La trama è tutta italiana e burrascosa: i protagonisti – una cozzaglia di vite alternative – decidono di rapire un politico italiano, di chiedere il riscatto e di risarcire con questi soldi la moglie di una vittima sul lavoro. Alla fine, sbaglieranno persona. Il film ha un retrogusto di amaro, di divertente, ma non solo

Per la foto: picasa

martedì 19 ottobre 2010

Cori razzisti: che palle infinite!


Scusate, ma proprio non ne ho più. Non ne ho più di sentire sempre la solita solfa di gente che urla “buuuuuuuu” ad un giocatore di colore. Ne ho piene le ciuffole. Sul corriere.it di oggi, c’è l’ennesimo pezzo sulla questione. Lo riporto, visto che non è lunghissimo: 

“Il giudice sportivo ha deciso di comminare un'ammenda da 25.000 euro al Cagliari a causa dei cori razzisti rivolti dai tifosi sardi al giocatore dell'Inter, Eto'o. Domenica, l'arbitro Tagliavento, aveva interrotto per alcuni minuti la sfida tra rossoblù e nerazzurri in seguito ai 'buu' piovuti dalle tribune del Sant'Elia all'indirizzo dell'attaccante camerunense. La sentenza, secondo il Codacons, «è ridicola ed offensiva». «Dov'è finita la tanto decantata tolleranza zero?» si domanda il presidente Marco Maria Donzelli. «Non dare la sospensione del campo, neanche per una giornata, significa permettere i cori razzisti. 25.000 euro non sono una sanzione per una società di serie A, sono briciole, che peraltro non toccano chi ha fatto quei cori razzisti» ha proseguito Donzelli. «Questa sentenza è l'ennesima dimostrazione che non ci si può fidare della »giustizia« sportiva. Per questo chiediamo l'intervento del ministro degli Interni»Il Codacons chiede, ad esempio, che, in caso di cori razzisti, a fronte di un referto arbitrale che attesti la tifoseria colpevole, scatti, anche per la società in trasferta: partita persa a tavolino, multa alla società pari all'incasso della serata e sospensione del campo per una giornata”.

Ora, mi piacerebbe capire che cosa spinge una persona che va allo stadio a fare sto verso che, a quanto pare, dà molto fastidio alle persone di colore. Dico io: passi il “vaffa”, il “pezzo di m…”. Passino non tanto perché sia un elegante visione dei giorni nostri, no di certo.
Ma passino, perché sono insulti gratuiti che iniziano e finiscono nell’arco di un secondo. Il “buuuuuuuu” dà fastidio perché rimane addosso. Sulla pelle di chi lo subisce. Perché quando uno torna a casa e pensa: “Mi ha detto pezzo di m…” ci passa sopra, ma sentirsi dire “sporco n….”, piuttosto che sentirsi insultare violentemente per la propria origine o provenienza è fastidioso perché colpisce le razze, le famiglie, le genti.

Insomma, qualche anno fa certe delicatezze e sensibilità non erano diffuse. Si pensava che buttare fuori dal finestrino una bottiglia di vetro fosse solo maleducazione. Invece oggi si sa che questo si chiama “Attentato alle famiglie di domani”.

Qualche anno fa, “sporco n…” era un insulto come un altro. Oggi, abbiamo appurato che provoca un’offesa superiore alla media, che fa male. Perché andare avanti ancora? E se tanto sto Eto’ vi dà fastidio, ditegli “interista di m…”. Si metterà a ridere.

Tanto per non essere tacciata di essere spudoratamente interista: Zoro ebbe le palle tanti anni fa, quando proprio contro l’Inter si fermò con la maglia giallo-rossa del Lecce perché offeso dai cori razzisti. Ebbe il coraggio di dire: “Ma andate a fan….voi”.

Chiudo con una piccola provocazione nella speranza di strappare un sorriso. Uomini di colore sui campi di pallone, dico a voi: la prossima volta che qualcuno vi urla un “buuuuuuu”, tiratevi giù i calzoni. Vedrete che agli stronzi non verrà più neanche da ridere…

Per la foto: flickr.com

Stasera andiamo al cinema: i film in uscita il 22 ottobre/Parte 2

Ecco altri tre film in uscita venerdì 22 ottobre: musica, drammaticità e la questione religiosa in prima linea.

Caccia alla spia

Valerie Plame (Naomi Watts) e suo marito Joe (Sean Penn) sono i protagonisti di una storia di intrighi politici, segreti e sotterfugi: tutti ingredienti dei servizi segreti americani, nonché della stampa statunitense. Sul piatto, c’è l’anonimato di Valerie, agente della CIA, la cui identità “poliziesca” viene invece rivelata attraverso una campagna giornalistica pericolosa e diretta con tutta probabilità a distruggere l’immagine di Joe, marito di Valerie e giornalista d’assalto senza peli sulla lingua. Un film d’azione e intrighi che pone una donna in una posizione scomoda e combattiva: di chi deve far fronte ad un punto di rottura nella carriera, così come nella vita privata.

Passione

Un film italiano, musicale, napoletano. Che attraverso le canzoni e i videoclip racconta una città, una realtà e mille epoche diverse. Da Mina agli Amamegretta, da Napul’è alla musica di due secoli fa. Ogni singolo pezzo diventa teatro di un piccolo film nel film del quale l’italo americano John Turturro è il regista- protagonista. A chi ama la canzone napoletana questo film non può sfuggire.

Uomini di Dio

E’ un film del regista Xavier Beauvois, ispirato liberamente alla vicenda dei monaci cisterciani che vivevano a Tibhirine, in Algeria, dal 1993 fino al loro sequestro, avvenuto tre anni dopo. La pellicola narra di un attentato che sconvolge quello che può sembrare un paradiso: dove monaci cattolici vivono in serena tranquillità tra preghiera e lavoro con i fratelli musulmani. Una storia ispirata ad un fatto vero che ricalca le paure di oggigiorno.

lunedì 18 ottobre 2010

Stasera andiamo al cinema: i film in uscita il 22 ottobre /Parte 1

Ecco la prima parte dei film in uscita questo venerdì, 22 ottobre. Questa settimana primeggia l'horror sulla commedia


Wall Street: il denaro non dorme mai

Sotto la guida del regista Oliver Stone, questo film è l’ultima fatica di Michael Douglas, Susan Sarandon e diversi altri ottimi attori. La trama, visibilmente americana nonchè il continuo dell'omonimo film del 1987, è avvincente anche se contorta e fatta apparentemente dei classici intrighi finanziari d’Oltreoceano. Protagonisti sono un vecchio uomo senza scrupoli (Gekko) che arriva da un periodo di assenza dal mondo del denaro per via della prigione, scontata a sua volta per frode finanziaria, riciclaggio e traffici illeciti. Tornato nel mondo del Dio denaro, Gekko si affida al genero Jake, decisamente differente e moralmente più retto rispetto al padre della sua ragazza, Winnie.
Classica vicissitudine famigliare ed economica che…come si concluderà? Quale sarà l’epilogo? Gekko rimarrà un farabutto della finanza? Concluderei con una frase del film del 1987, spaccato dell'america finanziaria yuppista di quegli anni: "Avidità!? Cosa c'è di male... dopotutto, è solo una questione di soldi"...


In the market

Un film italiano che ha come regista Lorenzo Lombardi. La trama trova nelle parole paura e terrore le sue colonne portanti: tre amici hanno da poco finito gli studi e si stanno dirigendo verso il viaggio della loro vita. Tutto si interrompe con una rapina subita al distributore di benzina, l’isolamento delle linee telefoniche e la brillante idea di nascondersi in un market dove presto entreranno energumeni per macellare carne..non animale. Per amanti del genere.

Paranormal Activity 2

Una pellicola di Universal Picture guidata dal regista Tod Williams terrà incollati gli spettatori alla sedia: stile “real” in prima linea con Katie Featherston e Gabriel Johnson. E’ il continuo del Paranormal Activity, il film costato una sciocchezzuola e mandato nelle sale con immenso successo nel gennaio del 2009. Questa volta i genitori della protagonista Katie decidono di installare la videosorveglianza poiché convinti che la loro piccola sia disturbata da vandali. E invece, tornerà in auge il fenomeno paranormale…

Per la foto: flickr.com

domenica 17 ottobre 2010

“Benvenuti al Sud”: commozione, risate e introspezione.



Dopo varie vicissitudini, sono riuscita ad andare al cinema. Corse, code alla biglietteria, la solita sciura che sta a gambe aperte come se stesse facendo aerobica per avere un piede in una fila e un piede nell’altra, la figlia della signora che lasciata da sola si sente spaurita e urla “mammaaaaaaa”, la macchinetta del caffè che non va, l’impossibilità a causa della calca di comprare i mitici M&Ms (che in lingua parlata diventano in men che non si dica “ememem”).

Dopo tutto questo, sono riuscita a sedermi sulle poltrone del cinema: pubblicità, trailer vari (prossima seduta con “Maschi contro femmine” e “Due cuori e una provetta”) ed ecco che inizia il film.

Bisio, la Finocchiaro, le Poste, il Duomo di Milano, le giacche e le cravatte, i sacchetti dello shopping, la passione sfrenata per la legalità, un bambino sfigato con gli occhiali, i piselli anemici nel piatto e quattro sane risate autoironiche che non guastano mai.

Nonostante le risate sacrosante all’inizio – dico la verità – ho provato un po’ di fastidio: sì, fastidio. Per la “stereotipazione” della gente del Nord, vista solo e soltanto come gente fredda che pensa ad andare a vivere in una bella casa, alla carriera con giacca e cravatta, gente che guarda i cognomi sul citofono e storce il naso se ci trova un Esposito, gente che vuole lo scontrino a tutti i costi e cose di questo genere.

Beh, il messaggio è arrivato, penso: forse anche a quelli del Sud dà fastidio che li vediamo come terroni, come chi non fa la differenziata, mangia le salsicce al mattino, lavora poco, apre l’ufficio alle nove, si ferma a bere un caffè ad ogni consegna.

Ai titoli di coda ho capito che il messaggio nel film non è questo. Affatto.

Il “piccione” della pellicola che ha come protagonista Claudio Bisio è ben altro. E’ molto di più.

Anzitutto, il messaggio del regista Luca Miniero passa per una storia di quotidianità e normalità.
E solo i migliori riescono a mostrare i messaggi di concetto e di cuore attraverso la vita di tutti i giorni agli spettatori. I quali solitamente hanno gli occhi desiderosi di trovare i marziani sotto al letto, di scoprire chissà quali verità, di chiudere tutti i cerchi del Mondo. E non certo di vedere una quotidiana preparazione dell’insalata.

Dicevamo che il messaggio è un altro: l’unione tra Nord e Sud fa piangere. Fa commuovere. Perché quando si cambia idea ci si commuove sempre, ci si guarda allo specchio e si dice (felici) “ma quanto sono stupida”. Parte del messaggio finale del film è questo.

Certo, se alcune provocazioni - come la raccolta differenziata fatta in questo piccolo paesino vicino a Napoli – dovessero passare come quella verità nascosta dietro i luoghi comuni che vorrebbero invece i cassonetti bruciati a Napoli, beh, questo film non avrebbe senso. Anche perché se a Castellabbate si ritira un giorno la carta e l’altro l’organico, questo non succede dappertutto al Sud (io li ho visti in una Regione del Sud i sacchi neri della monnezza appesi ai balconi e non ero ubriaca!).

La cosa stupenda di questo film è anzitutto il finale: il ritorno a Milano dei protagonisti. Con commozione per quel che si lascia dietro, certo. Ma il ritorno a Milano. Un finale banale sarebbe stato veder rimanere i polentoni a Castellabbate.

Ma la cosa più bella di questo film è vedere che si può amare qualcosa senza farne un mito e senza per forza scegliere tra una casa di residenza e una “delle vacanze”. E’ bello vedere che si può amare Castellabbate, ma nello stesso tempo non insultare mai Milano e tornarci quando si potrebbe non farlo.

Durante il film non si assiste mai ad una difesa forte e violenta della propria città – né da parte del milanese Bisio, né da parte dei cittadini di Castellabbatte – così come non si assiste ad un amore perso per Milano e, in maniera inversamente proporzionale, ad un amore nato tutt’un tratto per il Sud.

Si assiste ad una comprensione graduale del fatto che in fondo c’è bisogno di tutto.

Se Bisio non fosse andato al Sud, Maria e Mattia non si sarebbero mai messi insieme, poiché tutto sarebbe rimasto nell’immobilismo: difetto delle regioni meridionali (da una parte l’immobilismo, dall’altra i piselli anemici…).

Se Bisio non fosse andato al Sud e non avesse incontrato un pallone da calcio quotidiano, forse avrebbe continuato la sua vita con Silvia in maniera noiosa e ansiotica.

Senza cercar di trovare la “morale della favola”, guardate questo film: per le risate, per qualche lacrimuccia se siete sensibili e per godervi una storia. Con un messaggio finale, ma pur sempre una storia.

Una cosa sola: il bambino di Milano, con la maglia di Lavezzi sulle spalle alla fine…proprio no eh?

Per la foto di Claudio Bisio: flickr.com
Per la foto di Angela Finocchiaro: flickr.com

Per ascoltare Lucio Battisti, ci vuole cultura sociale



Non mi dilungherò molto, spero, in questo mio post. Solo per dire che per ascoltare Lucio Battisti nel 2010 – quarant’anni dal suo esordio e a 12 dalla sua morte - ci vuole un background di cultura famigliare molto alto. Che non vuol dire avere in casa la famigliola del Mulino Bianco. No. Significa avere alle spalle una voglia di passato alla quale ci conducono solo ed esclusivamente le persone che nel passato hanno vissuto e che ancora oggi possono raccontare.

Lucio Battisti è questo: un ponte tra passato e presente che non ha eguali. Non tanto perché cantasse chissà quali verità sociali, quanto perché la premiata ditta Mogol – Battisti ha avuto il pregio di fare storia e di raccontare la quotidianità di tutti i giorni: con le donne, con gli amici, con il carretto dei gelati. Scegliete voi. Non sono state canzoni di denunce sociali, né tanto meno di politica furente (della stronzata immensa che vorrebbe “Il Mio canto libero” come inno fascista non dico altro che non serve). Ma è stata la storia di una vita quotidiana – spesso rivivibile anche oggi senza ulteriori cambiamenti - raccontata attraverso i personaggi scelti da Battisti e Mogol: Francesca, Anna, la prostituta di “Anche per te” e tanti altri.

Una sorta di teatro musicale che insieme al teatro canzone di Giorgio Gaber completa il cerchio della bellezza orecchiabile e per certi versi nostalgica.

Che dire ancora? Girate la manopola della radio e ciccate il video qui sotto: visto che le frequenze non mandano più le canzoni di Battisti, usate un po’ di immaginazione e fatevi trasportare.

sabato 16 ottobre 2010

Memorie del sottosuolo: e al diavolo il romanticismo



MEMORIE DEL SOTTOSUOLO-
Fedor Dostoevskij (1864)

Memorie del sottosuolo: un cocktail assoluto di filosofia e ragionamenti uniti ad un racconto tra il concreto e “l’ardussimamente” reale.
Una storia di quotidianità.
Fedor Dostoevskij per l’ennesima volta dipinge un teatro di miseria affettiva, ma di nutrita razionalità che conduce il lettore oltre l’immaginabile, oltre la fantasia e oltre tutte le cattedrali del mondo costruite per far sentire all’uomo la propria potenza: Dostoevskij dal 1864 in poi racconterà spesso del sottosuolo, inteso non come morte. Anzi. Inteso come vita, quella vita che non viene annotata sui diari ma che diventa romanzo. Ebbene, lo scrittore russo, in questo breve scritto in particolare, acquista dalla quotidianità di tutti i giorni paranoie, sguardi e assurdità.
Scritto in prima persona, il libro si divide nettamente in due parti: la prima è un vero e proprio monologo, nel quale il protagonista ragiona, pensa, scava nell’animo umano e vi trova della razionale depressione, così come una lucida consapevolezza di quanto l’essere umano sia portato ad amare l’amore quanto l’odio.
Narra di quanto il volere passi sopra all’affetto e a tutto il resto.
Un farabutto, a detta dell’autore, potrà sempre essere l’uomo più buono di tutti se lo vuole. Così come un animo gentile e tenero, pur rimanendo tale, può trasformarsi presto in un carattere cattivo e vile.

“(…) che in ogni momento, perfino nel momento della più forte bile, ero vergognosamente conscio dentro di me che non solo non ero un uomo maligno, ma nemmeno inasprito, che non facevo che spaventare i passeri senza costrutto e con questo mi consolavo”.

La consolazione dell’autore passa per la sua autodeterminazione: l’uomo è tanto più soddisfatto, quanto più è artefice del suo destino, buono o brutto che sia.

L’ansia più totale del personaggio non è essere triste. Ma non essere niente.
Il resto dell’ansia, invece, è rappresentato dalla consapevolezza: di conoscere o di essere a conoscenza (che non significano la stessa cosa): 

Vi giuro signori che aver coscienza di troppe cose è una malattia”.
“(…) Quanto più avevo coscienza del bene e di tutto questo bello e sublime, tanto più profondamente mi lasciavo prendere nella mia melma e tanto più ero capace d’impantanarmici del tutto (…)”.

Un’intelligenza fine, acuta quella del protagonista che, nonostante smonti tutto quello che vede rendendolo a volte cenere, riesce ad andare oltre anche al più primordiale dei luoghi comuni: la dicotomia netta e secca tra amore e odio.
L’intelligenza e il volere sbriciolano questa differenza e lasciano solo il volere e l’intelligenza.

La seconda parte del romanzo, invece, è un vero e proprio racconto: con parentesi di sensazioni e pensieri, intervallate da discorsi diretti nudi e crudi.
Narra quindi di un personaggio che decide di reagire ad un ufficiale che lo aveva scansato senza neppur guardarlo durante una serata trascorsa in una bettola.
Il problema per l’autore non è che l’ufficiale lo ha trattato male: è che non lo ha trattato affatto, facendolo sentire nulla. Aria.

La stessa sensazione di nulla, il protagonista la prova nel tratto centrale del racconto quando, ritrovando vecchi compagni di scuola, egli cerca di darsi un tono pur cadendo sempre nel breve e immediato dimenticatoio.

Infine, l’ultima parte del romanzo narra di un incontro tra il protagonista e una giovane prostituta. Da un dialogo tra di loro, esce tutta la rara intelligenza dell'uomo che, però, tradisce la sua perfezione facendo credere alla giovane donna di poterla salvare da quel mondo sporco e putrido, nonostante la sua mediocre povertà glielo avrebbe impedito: e qui sta il limite del volere umano., ossia nel mondo esterno: che riduce una persona a cattivo uomo di provincia, con poche possibilità di fare ciò che vorrebbe.

L’incontro finale tra i due terminerà con una scena di tristezza infinita: un soldo consegnato nelle mani della giovane donna, quasi a volerla far scappare sul serio. Questo la farà sentire – più di altre volte – una prostituta e a farla ripiombare nel baratro sarà proprio colui che la aveva illusa di una salvezza. 

Un pianto, un toccarsi di mani e un sottosuolo che continua a venir fuori in ogni pagina e in ogni dove.
Un sottosuolo fatto di paura e contraddizione: di chi vorrebbe uno scossone forte e lo desidera al tal punto che quando lo vede arrivare si sposta perché, forse, è più soddisfacente l’attesa e la ricerca piuttosto che una delusione cocente di un terremoto di bassa forza.

venerdì 15 ottobre 2010

Tv? No grazie...


Io ho un amico che non guarda la televisione da quattro anni e mezzo. Giuro. Dal 2006, non la guarda (o non la vede: in fondo la differenza c'è, ma in tanti fan finta di guardare e invece vedono e basta). In fondo, mi piacerebbe dedicargli un articolo su "Il Cittadino", ma lui proprio non ci vuole sentire. Sostiene, a torto, che non sia una notizia. Ma invece è una notizia e pure grossa.
Nell'era in cui il silenzio infastidisce, lui non accende la tv da quattro anni e mezzo. Di sera legge, parla con sua moglie - d'accordo con lui per il provvedimento - mentre la piccola foglioletta ancora non sa e non capisce. 
"Ma i cartoni non li guarda?" chiedo io. 
"Sì, in dvd e in VHS" dice lui. 
Ma nient'altro: niente TG, niente varietà, niente Maria De Filippi e Carlo Conti, niente reality, niente soap opera, niente telefilm, niente programmi cosiddetti d'approfondimento. Niente di niente. Niente "sola" del digitale terrestre, di Premium, di Sky, dei nuovi canali.
"Ma paghi ancora il canone?"
""
Pure? Cioè, non guarda la tv, ma ha sempre pagato le tasse del canone: un marziano, praticamente.
"Sto aspettando che mi suggellino la televisione e poi non lo pagherò più".
Io non sapevo che cosa volesse dire "suggellare la televisione". Ora lo so.
E' una sorta di piombatura: l'ultimo atto legale  e meccanico per salutare la tv, il tubo catodico o l'ultrapiatto, il carosello, i Cesaroni. Dopo la suggellatura, addio canone RAI (altro che "mamma").
In ogni caso, questo amico rimane informato, poichè utilizza altri mezzi di comunicazione: radio e giornali su tutto e internet esclusivamente per lavoro.
La notizia, però, non sta qui. O meglio, non solo. Sta nel fatto che lui non lo fa per politica. 
"La televisione mi annoia". Semplicemente questo. E vi assicuro che il mio amico è una persona che rientra nella norma: simpatico, professionista, media altezza.
Non sono d'accordo con lui, nel senso che io non lo farei. Forse perchè ho troppo amore per il divano  e per il sottile sonno che passa dagli occhi insieme alla voce di qualsiasi personaggio racchiuso all'interno della scatola blu. Sarà per quello.
Però, credo che oggi non ci sia nulla di più originale che non guardare la tv per scelta. Neanche per passare del tempo inutile. 
In fondo se parliamo tutti la stessa lingua (quasi) è solo per la televisione, mi verrebbe da dire a sua discolpa.
Ma tant'è. Il premio originalità va a questo mio amico che un po' invidio. E un po' no. Magari nei prossimi giorni tento di esprimere il perchè io, invece, ancora accenda la tv per guardarla più o meno attentamente.


La notizia della fame


Il Corriere.it: "A dieta ferrea per mesi, muore 36enne".

http://www.corriere.it/salute/nutrizione/10_ottobre_15/donna-morta-dieta-marchetti_abbf3bb4-d840-11df-ad4e-00144f02aabc.shtml 

 Per la foto:http://www.flickr.com/photos/marianoluchini/1435687208/

 Il Corriere.it: "La Fao: Il Mondo non dimentichi il miliardo di affamati".

http://www.corriere.it/cronache/10_ottobre_14/giornata-mondiale-alimentazione_4639b7f0-d797-11df-8fad-00144f02aabc.shtml 

Per la foto: http://www.flickr.com/photos/26233236@N04/2474173742/

Serve dire altro?

mercoledì 13 ottobre 2010

Il più mancino dei tiri: sorridere di nostalgia



Edito da Mondadori, “Il più mancino dei tiri” rimane tra la letteratura saggistica uno dei libri più evocativi del panorama sociale italiano. Ricco di spunti, evocherà sorrisi da parte del lettore che grazie alle parole dell’autore può ricordare, dire “Eh sì, era proprio così”, oppure può immaginare di nuovo situazioni ormai terminate, andate, finite. Il libro parte da Mariolino Corso, dal suo tiro, dal suo sinistro di Dio. E il lettore, che Berselli ama spazientire in maniera forte e vigorosa, rimane in attesa della descrizione di un’azione calcistica (arriverà?). E nel mezzo si deve “accontentare” di parallelismi tra il calcio e la società. Si deve accontentare di personaggi che mischiano le loro storie come Manlio Scopino, Comunardo Niccolai, Omar Sivori. Ma anche Giulio Andreotti, Ugo La Malfa, Alcide De Gasperi e tutti gli altri. Berselli indica Mario Corso come l’esempio e il simbolo del fallimento della sinistra italiana: il tutto attraverso la spiegazione della filosofia calcistica degli anni di Corso, quando “il gruppo” non esisteva ancora e quando Corso poteva permettersi di rimanere nel cono d’ombra aspettando il lancio lungo da quaranta metri di Luisito Suarez, mentre il Mago Herrera si incazzava come una bestia perché la palla, secondo gli schemi provati in allenamento, sarebbe dovuta finire alla “nostalgia” Sandrino Mazzola. Per Berseli, la memoria è l’unica cosa che conta nella vita. Da intendersi come vita partecipata, vissuta, sentimento di un passato condiviso. Ma anche sforzo mnemonico, gioco di società e massimo criterio organizzativo.
Desideroso di non sincronizzare, Berselli crede che la storia sia tutto un sincrono, così come le emozioni, i racconti e tutto ciò che ricordiamo.
Al motto di “Io non voglio scoprire niente, ma vogliono ricordarmi tutto” Berselli fa un excursus interessante, divertente e alle vote romantico e nostalgico. L’autore stimola la memoria non come insieme di casellari, bensì come animale in continua evoluzione logica che aiuta a vivere il presente, e perché no, il futuro. “Perché la vita è piuttosto complicata per essere racchiusa”.

Per chi ama sorridere mentre legge, questo è il libro giusto.

Una sola figura si esime dalla regola: è l’uomo in più, il fantasista dal tocco magico, il primo violino che suona una melodia tutta sua mentre l’orchestra segue disciplinatamente lo spartito”.

Diffidate di chi ha la scrivania sgombra. Di sicuro è uno che nasconde tutto nei cassetti. E se non ha niente neanche nei cassetti, a che diavolo gli serve una scrivania?”. Un solerte cultore dell’ordine, dei fascicoli, delle pratiche, dei falconi, delle carpette è costretto a selezionare, cioè a gettare nel cestino vecchi documenti e cartacce inutili. Salvo poi accorgersi nel momento peggiore che una certa cartaccia inessenziale si è reincarnata o reincartata nella mente di un superiore come documento essenzialissimo”.

Perché il calcio è un frammento di vita, una insostituibile figurina Panini nel grande album dell’universo”.

Sappiamo che in linea di tendenza la formula a zona si deve considerare “di sinistra”, mentre quella a uomo va classificata”di destra”. Quest’ultima infatti è conservatrice, fondata com’è sul riconoscimento dei limiti umani e sulla constatazione che è più facile distruggere che non costruire (…) La zona invece nasce dalla considerazione che il progetto, la rete organizzativa, il collettivismo, la Gestalt superano i limiti individuali”.

Non bisogna farsi ingannare dalle etichette. Ciò che conta è la cosa in sé: a dispetto delle apparenze, nella realtà esistono solo tre tipi di whisky: il whisky, il whisky doppio e il whisky triplo. Quanto al football: il calcio ha dieci comandamenti (…). Primo non prenderle, secondo non prenderle, terzo non prenderle”.

Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.

Quando uno vuol perdere, Dio glì dà una mano, e alle volte anche un piede”. Tant’è vero che a Catanzaro, una volta, Niccolai crede di aver capito che l’arbitro abbia fischiato un rigore palesemente iniquo contro il Cagliari. Non si può mai sapere che cosa passi per la testa di un Comunardo quando nella storia prende forma il sospetto dell’ingiustizia. Lui si arrabbia follemente, e da fuori area, con la potenza irrefrenabile trasmessa ai muscoli da un’ira davvero funesta, spara un gran tiro incazzato verso la propria porta: il pallone si dirige a centoventi orari all’incrocio dei pali, e per metterci una pezza un suo compagno difensore devia di pugno con un plastico tuffo: e l’arbitro, che non aveva fischiato proprio un bel nulla, è costretto malgrado l’ammirazione per la prodezza, a fischiare effettivamente il rigore”.

In un campionato in cui cominciano a definirsi nuovi ruoli, e in cui le specializzazioni tradizionali sembrano esaurirsi per lasciare spazio a forme nuove di organizzazione del gioco, Corso impersona il tentativo irriducibile di conservare il trequartista, alla mezzala cosiddetta atipica, le sue idiosincrasie di grande eccentrico, di marginale talento che deve solo alla sua irritante classe la presenza in squadra”.

Il massimo che Nereo Rocco richiedeva alla fatica proletaria di Lodetti o all’onesta applicazione operaia di Pelagalli era di correre fino a crepare: e appena intercettata anche solo per caso la palla, di cederla immediatamente a Rivera, l’uomo dal tocco in più, che ci pensasse lui ad inventare qualcosa. Dal rude Domenghini si pretendeva che corresse su e giù per il campo fino a farsi venire gli occhi in croce, e poi, due soluzioni: un gran traversone per la capa di Boninsegna vuoi per il dinamitico sinistro al volo di Riva, oppure una legnata terrificante in proprio, o la va o la spacca. La consegna di Bedin era di affidare senza esitazioni il pallone a Corso nella tre quarti, e que sera sera: talvolta, se più opportuno, un passaggino a Suarez, che puntasse il mirino per gli infallibili quaranta metri di lancio, direzione Jair, più mulatto e veloce che mai”.

Se ti chiami Omar Sivori puoi arrivare tardi all’allenamento, infischiandotene delle rampogne dei vertici societari, e scendere in campo con gli occhiali scuri per nascondere due occhiaie da far paura. Tanto, la domenica al comunale, il raffinato degustatore Gianni Agnelli mica si informa sull’andamento del lavoro di preparazione atletica svolto in settimana. L’unica cosa che gli importa è di assaporare un tunnel riuscito, un gol funambolico, anche un’invenzione fine a sé stessa, un doppio passo, una carognata dell’ingegno. Ma se invece il tuo nome è De Sol, e sei un cursore ottuso, o Cinesinhno, e sei un flebile geometra, ti conviene rassegnarti alle angherie e adeguarti conformisticamente al movimentismo”.

In sostanza, perché Mariolino Corso è l’emblema del fallimento della sinistra italiana? Perché è colui che nel tempo passato a solcare un campo da calcio ha sballato gli schemi del Mago che, nonostante questo, ha vinto, stravinto ed è pure passato alla cassa. La stessa cosa succede nella società della sinistra italiana, dove si lavora tutti “a zona” finchè non arriva una personalità forte a scombussolare il tutto. Peccato che Mario Corso fosse in grado – pur nella sua tendenza a distruggere gli schemi di Herrera – di far vincere la sua squadra. Mentre nella sinistra italiana, una personalità e un genio del genere che trascini sempre e comunque, godendo della collaborazione della forte compagine alle sue spalle…beh, non è ancora esistito. La differenza sta tutta qui. L’Inter ha vinto, la sinistra ha fallito.

Sarà anche un "pirla", ma...


Sarà anche un “pirla” – detto nell’accezione più milanese e simpatica del termine – ma intanto è l’unico ministro che la dice senza mezzi termini e che, spesso e volentieri, la dice giusta. Spesso esagera: fa il medio all’inno d’Italia, scatenando lo sdegno dei patriottici, dà dei “porci” agli amici romani con i quali mangia tutti i giorni, parla in dialetto milanese. Un tempo, addirittura buttò nel cesso il Tricolore e raccolse in un’ampolla le acque di quello che di lì a qualche tempo si sarebbe dovuto ricordare come “il dio Po” (in pochi se la ricordano questa). Insomma di bizzarrie a volte fastidiose Umberto Bossi ne ha fatte parecchie. Ma intanto, quando c’è da dire qualcosa sulla guerra, non usa la dialettica (che forse non ne sia capace è un dubbio che può venire in mente), non dice le solite “sole” da ministro, le frasi fatte della missione di pace eccetera eccetera eccetera.
“L'eventuale decisione di armare di bombe gli aerei italiani in Afghanistan sarà mia e solo mia – riferisce il sito del Corriere riportando le frasi del ministro alal difesa Ignazio La Russa - così come è stata mia la decisione di non armare i Tornado per evitare il rischio di colpire civili” (non siamo in guerra vero?). In tutto questo, Bossi dice che è meglio dare i soldi “alla ricerca piuttosto che alle bombe”. Un futuro di ricerca o la guerra: che ardua scelta, vero?

martedì 12 ottobre 2010

La guerra c'è. E ci sarà


Diciamoci la verità, la guerra fa parte della vita. Ogni giorno siamo in guerra. Ogni giorno parliamo di guerra. Ogni giorno facciamo la guerra. Non servono carrarmati. Non servono fucili. Servono due parti che non trovano un accordo. Ecco fatta la guerra: con le armi, a parole, a sotterfugi. “In guerra, la verità è la prima vittima” diceva Eschilo.
Ed è vero: in guerra tutto diventa tremendamente relativo. La vittoria, come la ragione. La vita stessa è relativa perché la mia è importante, ma non tanto quanto la tua o la sua.

Odio l’idea che ci siano ragazzi ventenni che muoiono in una terra lontana. Ma – sempre per il concetto che mi fa odiare con tutta me stessa la retorica figlia della patria citata da Giorgio Gaber – ammetto con franchezza che odio ancora di più chi fa finta di non capire. Chi fa finta di piangere gli eroi del giorno d’oggi. Quando invece questi soldati, come tutti i soldati di tutti i tempi e di tutte le epoche, erano solo ragazzi. Solo ragazzi. Chi fischia il minuto di silenzio non merita né un commento, né una parola. Chi scrive sui muri frasi indegne contro i soldati invece qualche punzone ardente negli occhi se lo meriterebbe.

E’ insopportabile il cordoglio ridondante che si crea in questi casi. Non tanto per le lacrime: sacrosante, giuste e umane. Quanto per i discorsi, le parole, le medaglie al valore: “Nel petto un cuore più non ha. Ma due medaglie o tre”. E non lo diceva uno statista, ma un cantante. Forse quello considerato il più leggero di tutti (Morandi nda). Capirai: e che ce ne facciamo delle medaglie, mi vien da dire? In Afghanistan siamo in guerra: non scherziamo. Nessuno di noi sa cosa succeda esattamente laggiù. Ma siamo in guerra: perché se dei ragazzi italiani con addosso delle divise muoiono, se muoiono dei civili, dei bambini, vuole dire che siamo in guerra. E prima se ne rendono conto tutti, prima torniamo a dare alla vita di quattro ragazzi il valore che ha oggi. Oggi che hanno vent’anni. E non domani quando le mogli mancate e i figli stringeranno tra le mani “le due medaglie o tre”.

Detto questo, la guerra c’è e ci sarà: ma - ahimè – conviene che impariamo a conviverci. Conviene che non facciamo più finta di essere sorpresi se quattro ventenni partono con le loro gambe e tornano in una bara. Conviene che prendiamo coscienza delle cose, della realtà dei fatti.

La guerra è guerra. Provate a spiegare ad un bambino cosa è la guerra: non riuscirete a spiegare perché i nostri soldati son morti. Non riuscirete senza trovarvi in imbarazzo. La pace non è possibile e per raggiungere la pace – diceva Aristotele – si deve fare la guerra.

Va bene anche così. E’ bene ricordarlo: chi parte lo fa consapevolmente e volontariamente (questo non giustifica nessun fischio, nessuna cattiveria di alcun genere e nessuna “rinfacciata”).

Va bene così, dicevamo, visto che la guerra esiste e esisterà sempre. Ma che almeno si eviti di far risuonare l’inno, di mettersi la mano sul cuore tutte le volte senza avere il coraggio di dire che questa si chiama “morte” e “quotidianità”.

Tanto vale essere sinceri. Con se stessi prima di tutto.