venerdì 1 ottobre 2010


Grazie ad un'amica, mi è capitato di leggere la lettera che il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ha scritto all'attenzione dei suoi giornalisti.
Da qui, mi sono venute alcune considerazioni: centrino sì, centrino no con il patinato Mondo del giornalismo "che conta", dico la mia.




Caro Direttore, ho letto con molta attenzione la sua lettera, pubblicata ieri sul sito del Corriere.it. L’ho letta con attenzione e vorrei poterle dire che ne sono rimasta sconcertata. Non è così. Nulla di ciò che ho letto mi scandalizza. Al massimo mi fa “fare spallucce”.

Io sono una giornalista pubblicista e vivo nei giornali locali da quando avevo 16 anni: da quando all’Esagono (settimanale di informazione della Brianza) raccoglievo i risultati delle partite di calcio nelle mie domeniche. Fin da quando, successivamente, sono passata ad altre testate giornalistiche, magari incrementando la mia esperienza e il mio guadagno, la mia soddisfazione e su tutto la mia passione. Sono migliorate tutte queste cose, ma non la mia posizione contrattuale: da sempre collaboratrice. Nonostante io, di fatto, faccia il lavoro del corrispondente, dell’articolo 12.

La mia situazione, nonostante il precariato, è meravigliosa: non le dirò che sogno il posto fisso, non le dirò che voglio le ferie pagate, non le dirò che mi piacerebbe – quando finisco in ospedale per l’asma – starmene a casa a riposare senza dover necessariamente perdere quelle 200 euro lorde sullo stipendio mensile. Non le dirò nulla di tutto ciò. Dico solo che la fotografia che lei ha descritto benissimo a parole non è la l’immagine patinata del Corriere della Sera, né del Gruppo RCS. Né del mondo del giornalismo. E’ lo scatto perfetto e preciso del Mondo di oggi, diviso fondamentalmente in due parti. Anzi tre.

I nonni pensionati (mia nonna Maria, per esempio) che si dispera perché io - nonostante porti a casa uno stipendio cristiano che mi permette di sognare una casa (fra dieci anni: ne ho 27), un matrimonio, dei figli – non ho un contratto fisso: “E i contributi?” mi chiede spesso. “I contributi me li pago io, nonna”. Poi, prendo più della metà del mio stipendio e lo metto in un libretto di risparmio nominale. Almeno lì, nessuno me li può toccare.
Ma a mia nonna tutto questo non basta. “Te le pagano le ferie? E la malattia?”. Povera nonna. Non capisce che l’Italia che ha vissuto lei, quella venuta dopo la fame, la guerra, le luci degli aerei nel cielo della Brianza, degli americani che le davano da lavare le camicie, della pensione “per star dietro alla famiglia”: ecco, quell’Italia lì non esiste più.
Poi c’è la generazione dei miei genitori. Anche loro hanno dovuto tribolare – come si dice qui in Brianza – perché gli ’50, ’60 e ‘70 a Milano e nel Veneto, pur non essendo anni da terzo mondo, erano periodi in cui il boom economico faceva pensare di poter arrivare dappertutto. Ma non era proprio così. Mio nonno Felice – padre di mia madre e marito della Maria e soprattutto pace all’anima sua – pensava che gli scioperi potessero risolvere tutto: i sindacati lo hanno fatto vivere di illusioni e le fabbriche (forse) lo han fatto morire di cancro.
Mio padre pensava che Milano fosse il caput mundi dell’economia, della ristorazione: quella che non era riuscito a conquistare con la scuola ma che, nonostante la sua terza media, gli sembrava così a portata di mano. E di fatto, in quegli anni lo era. Prima di fare il commerciante, mio padre ha fatto il vigile e ha lavorato in anagrafe: con la terza media (!!).
Mia madre in quegli anni si diplomò (1981), due mesi dopo entrò in una Banca di Credito: sono passati trent’anni. E lei è ancora lì, nello stesso ufficio. Si sono sposati, hanno comprato due case. La prima di queste nel 1987 costava qualcosa come 75 milioni di lire: lei mi sa dire, direttore, cosa mai si può comprare oggi con 35mila euro? Un garage?

E poi, finalmente, c’è la mia generazione: quella che per anni ha dovuto ascoltare i consigli dei più grandi. Sì, perché negli anni ’50, c’era poco da consigliare. Si andava, ci si provava. Negli anni ’70, c’era una mentalità aperta e menefreghista per certi versi. Oggi, ti assillano con il futuro a partire dalle scuole elementari: “Fai il medico” mi dicevano. Mentre io volevo fare l’inventrice.
Io faccio parte della generazione che si è diplomata negli anni 2000. Quella che per scegliere la scuola superiore ha visto cento open day per poi ritrovarsi ad avere l’ansia: “Scelgo il liceo linguistico, o il liceo scientifico sperimentale con tre lingue? Scelgo il corrispondente in lingue estere, o il Liceo giuridico economico?”. Finite le superiori tutti (escluso mio padre che, anacronisticamente, avrebbe voluto vedermi nel suo bar a continuare sotto le sue direttive il lavoro della sua vita) non c’era una persona che mi dicesse: “Vai a lavorare!”. Tutti dicevano: “Continua a studiare. Altrimenti ti dovrai accontentare del lavoro che ti faranno fare. Studia, va’ all’università. Avrai un futuro migliore”.
Qualcuno di noi ha studiato all’università per rincorrere un sogno.
Qualcun altro ha studiato perché si è fidato: “Studio, così avrò un futuro migliore”. Mai balla fu più grande. La mia generazione è cresciuta nella menzogna: nella chimera di un posto fisso che non arriverà mai. Nella realtà di fior di laureati che lavorano nei call center o di economi che portano avanti le aziende dei padri (per chi ha avuto questa fortuna).
E’ la generazione di chi ha avuto la fortuna che ho avuto io di imparare un mestiere durante gli studi e che oggi può costruire qualcosa: di labile, forse. Ma qualcosa. La fortuna, forse, ce l’hanno quelli come me: che hanno portato a casa un voto di merda alla laurea (92/110) ma che oggi partono da qualcosa senza sentirsi dire: “Questo stage non è retribuito. E non garantisce l’assunzione”.

Queste Italie sono nei libri di storia, nei racconti della nonna, nelle lamentele dei genitori che vorrebbero per noi un posto migliore: “perché non facciamo come hanno fatto loro?” si chiedono loro che, in alcune occasioni, si sono accontentati. Differenza: chi si accontentava negli anni ’80 aveva 50. Chi non s’accontentava e seguiva i sogni, aveva 30.
Chi s’accontenta oggi ha 15: ossia lo stesso che prende chi non s’accontenta ma che, magari, fa qualcosa che gli piace.

Bene, qual è la conclusione, caro direttore? Che oggi chi, come dice lei, non si “abbassa” a lavorare per il web, chi guarda di sbieco l’I-pad non volendo stare al passo con i tempi, chi pretende sempre (e per sempre) i maggiori privilegi. Bene, tutte queste persone non sanno che cosa vuol dire abbassarsi. Sanno solo cosa è il privilegio. Non perché se ne rendano conto. Ma perché lo vivono in maniera del tutto ignorante.

Caro direttore, io lavoro a pezzo: questo vuol dire che a fine settimana arrivo piegata perché per guadagnare di più, corro di più, scrivo di più, telefono di più. Ed entro in una frenesia e schizofrenia che mantengo a freno solo grazie a quella parte di pigrizia che mi porto dietro pur essendo brianzola. Grazie al mio divano, so ancora cosa voglia dire la frase “Oggi non ci sono!”. Però, quando arrivo a fine mese e calcolo gli “Oggi non ci sono!” mi pento, mi dolgo. E non dovrei, perché quel tempo non l’ho passato solo sul divano, ma con il mio ragazzo, i miei genitori, i miei amici, la mia squadra, le mie nonne: e questo, nell’economia della vita forse vale ancora qualcosa.

Eppure, ogni giorno vivo la mia esistenza non su diritti e certezze, ma solo facendo riferimento alle mie capacità: soprattutto alla mia capacità di trovare delle ore in più, rispetto alle 24 disponibili. Gestisco il tempo, le ore, la voglia. Gestisco tutto: il risparmio, le ferie, il cioccolato, la colazione del mattino. E questa non è una questione di soldi, caro direttore. E’ una questione di pressione del sangue, di chi si sveglia al mattino e dice: “Ce la faccio a  fare tutto? Andrò a fare gli allenamenti? Ho 30 euro per uscire a cena con i miei amici?”. E le dirò, direttore, che tutta sta situazione mi piace. Sì, mi piace essere padrona di me stessa fino alla fine. Non dover andare alle riunioni sindacali. Non dover storcere il naso se mi chiedono una cosa che non rientra formalmente nel mio meraviglioso contratto. Le dico solo che la fortuna non si vede mai, la si dimentica in fretta. E in fretta l’ha dimenticata chi non ha voglia di alzare il culo dalla sedia per mettersi al passo con i tempi, nella convinzione che il mondo dorato in cui i giornalisti assunti vivono ogni giorno (mondo fittizio, che resta in piedi forse grazie alla loro testardaggine nel non fare un passo indietro) sia la normalità e che fuori dal centro città non ci siano persone che, per scrivere sul corriere Ipad, andrebbero “a piedi…certamente a Bologna”. Giusto per chiudere con Riccardo Cocciante.

Buona serata, direttore

Elena Sandrè

1 commento:

  1. Carissima Elena sono Leonardo, scopro ora che hai un blog, e mi imbatto in questa lettera-sfogo. Condivido molte cose che scrivi altre meno. Certamente i redattori del Corriere che hanno scioperato li possiamo inquadrare come elite. Sono lavoratori ultragarantiti a scapito anche di chi come te è pagata a pezzo. Essere lavoratori senza certi diritti è un buon motivo perchè si cerchi di cambiare in meglio. Vorrei un Ordine che venga incontro a certe esigenze, anche a piccoli contributi, per ridimensionare certi ruoli accademici e dare briciole a chi non ha nemmeno quelle. Tu resti un mese in malattia e non vedi il becco di un quattrino. Questo a mio avviso è inammissibile, nel momento che il lavoro di collaboratrice diviene l'unico per il tuo sostentamento. Hai giusto qualcosina per la maternità, meno in confronto a quello che può prendere una donna con lavoro dipendente. Sei in sostanza una lavoratrice autonoma, con lo svantaggio che non puoi evadere il fisco (a meno che tu non abbia un secondo lavoro in nero). Non tutti hanno "le palle" come te e molti di fronte a questo mercato si indeboliscono, finiscono pure per umiliarsi. Idem chi è come me assunto a tempo determinato. Ho visto crescere a dismisura il mobbing aziendale. Tutto questo genera nervosismo, tensione e un senso di instabilità. Non tutti, ma molti, guardano alla stabilità sociale come linfa vitale. Perchè è quella che ci permette di avere una famiglia serena, come quelle che sono e sono state dei tuoi genitori e nonni. I tempi sono cambiati, d'accordo, ma ciò non ci impedisce di cercare di fare un passo indietro, di ritrovare un minimo di solidarietà cristiana. Ora, nell'epoca delle tecnologie e dell'Ipad (che non ho capito bene ancora oggi cosa sia), si può fare. Io vivo nell'angoscia e nella consapevolezza di non poter fare come fecere i miei genitori o i miei nonni. Avevo fatto colloqui presso aziende brianzole tempo fa e un capoccia mi disse: "Ma sei laureato e vieni qui da noi". Gli risposi: "Per la stabilità sociale e una serenità interiore anche questo lavoro va bene". Mi disse che per una mansione non specializzata avrebbre comunque preferito uno uscito da un corso professionale o un immigrato. E quindi navigo con un foglio di carta che, oltre avermi rubato 5 anni di vita (in cui mi sono comunque divertito), ora mi dà pure problemi nella ricerca di un posto. Ti invidio: io farei molta fatica a vivere senza una stabilità. Tra poco potrebbe essere così anche per me. Sono pessimista. Chiedere una condizione migliore aiuta anche nel morale.
    ciao
    Mi trovi sul blog http://ilmale.ilcannocchiale.it/
    Leonardo

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