martedì 12 ottobre 2010

La guerra c'è. E ci sarà


Diciamoci la verità, la guerra fa parte della vita. Ogni giorno siamo in guerra. Ogni giorno parliamo di guerra. Ogni giorno facciamo la guerra. Non servono carrarmati. Non servono fucili. Servono due parti che non trovano un accordo. Ecco fatta la guerra: con le armi, a parole, a sotterfugi. “In guerra, la verità è la prima vittima” diceva Eschilo.
Ed è vero: in guerra tutto diventa tremendamente relativo. La vittoria, come la ragione. La vita stessa è relativa perché la mia è importante, ma non tanto quanto la tua o la sua.

Odio l’idea che ci siano ragazzi ventenni che muoiono in una terra lontana. Ma – sempre per il concetto che mi fa odiare con tutta me stessa la retorica figlia della patria citata da Giorgio Gaber – ammetto con franchezza che odio ancora di più chi fa finta di non capire. Chi fa finta di piangere gli eroi del giorno d’oggi. Quando invece questi soldati, come tutti i soldati di tutti i tempi e di tutte le epoche, erano solo ragazzi. Solo ragazzi. Chi fischia il minuto di silenzio non merita né un commento, né una parola. Chi scrive sui muri frasi indegne contro i soldati invece qualche punzone ardente negli occhi se lo meriterebbe.

E’ insopportabile il cordoglio ridondante che si crea in questi casi. Non tanto per le lacrime: sacrosante, giuste e umane. Quanto per i discorsi, le parole, le medaglie al valore: “Nel petto un cuore più non ha. Ma due medaglie o tre”. E non lo diceva uno statista, ma un cantante. Forse quello considerato il più leggero di tutti (Morandi nda). Capirai: e che ce ne facciamo delle medaglie, mi vien da dire? In Afghanistan siamo in guerra: non scherziamo. Nessuno di noi sa cosa succeda esattamente laggiù. Ma siamo in guerra: perché se dei ragazzi italiani con addosso delle divise muoiono, se muoiono dei civili, dei bambini, vuole dire che siamo in guerra. E prima se ne rendono conto tutti, prima torniamo a dare alla vita di quattro ragazzi il valore che ha oggi. Oggi che hanno vent’anni. E non domani quando le mogli mancate e i figli stringeranno tra le mani “le due medaglie o tre”.

Detto questo, la guerra c’è e ci sarà: ma - ahimè – conviene che impariamo a conviverci. Conviene che non facciamo più finta di essere sorpresi se quattro ventenni partono con le loro gambe e tornano in una bara. Conviene che prendiamo coscienza delle cose, della realtà dei fatti.

La guerra è guerra. Provate a spiegare ad un bambino cosa è la guerra: non riuscirete a spiegare perché i nostri soldati son morti. Non riuscirete senza trovarvi in imbarazzo. La pace non è possibile e per raggiungere la pace – diceva Aristotele – si deve fare la guerra.

Va bene anche così. E’ bene ricordarlo: chi parte lo fa consapevolmente e volontariamente (questo non giustifica nessun fischio, nessuna cattiveria di alcun genere e nessuna “rinfacciata”).

Va bene così, dicevamo, visto che la guerra esiste e esisterà sempre. Ma che almeno si eviti di far risuonare l’inno, di mettersi la mano sul cuore tutte le volte senza avere il coraggio di dire che questa si chiama “morte” e “quotidianità”.

Tanto vale essere sinceri. Con se stessi prima di tutto.

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